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Cabrini svela: “Mi sono allontanato dal calcio”
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4 mesi agoon

Cabrini svela in un’interviste, tra i tanti argomenti toccati, di come si sia allontanato dal mondo del calcio.
Stagioni indimenticabili. “Le estati di Milano Marittima. Avevo 18, 20 anni. Stavo diventando popolare”. Antonio Cabrini è stato un simbolo del calcio italiano, bello, bravo, titolato. Ma a un certo punto si è allontanato dal pallone.
“Per carità, se mi chiamano per una trasmissione tv non dico di no, ma di partite ne vedo poche”.
“Un portiere che tocca la palla 70 volte a gara per me è inaccettabile. Ho un’idea diversa, ma non vorrei sembrare vecchio. Le mie sono soltanto opinioni, non dico che questo calcio sia peggiore del mio. Dico solo che è diverso e io mi ci trovo poco. Sono perplesso, come tanti. Il calcio però muove tanti interessi, è un’industria e bisogna tenere conto anche di questo. Il mio mondo era differente”.
Però lei è stato uno dei primi a crearsi un’immagine, a buttarsi in pubblicità.
“Vero. Tutto merito di Vitale allora proprietario di Robe di Kappa. Ci incontrammo un giorno dopo il Mondiale dell’82 e mi disse: “Tu sei perfetto”. Cominciai con il suo marchio, poi mi contattarono altri brand”.
Le piaceva?
“Sì. Poi sono arrivati Paolo Rossi e non soltanto lui. Penso di avere aperto una strada”.
Forse perché era anche bello. È vero che ha ancora sacchi di lettere delle fan?
“Roba di quarant’anni fa, anche di più. Credo che non le aprirò mai. Le ho in cascina, da mia madre. Sono cose del passato e non è giusto rivangarle”.
Era lusingato da tanta attenzione?
“Più che altro sorpreso. Ma sa, dopo un Mondiale vinto, le figurine Panini, le tv… ci stava”.
Cabrini svela: “Mi sono allontanato dal calcio”
Il racconto di Antonio Cabrini trasmette la nostalgia di un calcio che oggi sembra lontanissimo. Le sue parole sulle estati a Milano Marittima, tra popolarità crescente e il fascino di un’Italia che lo celebrava come campione e icona, ricordano un’epoca in cui il calcio era meno industria e più passione popolare. La sua perplessità sul gioco moderno, fatto di portieri che partecipano alla manovra con decine di tocchi, è lo specchio di un contrasto generazionale: Cabrini non condanna, ma evidenzia come il suo modo di intendere il calcio sia distante da quello attuale. Una riflessione sincera, che non suona come critica sterile ma come testimonianza di un cambiamento inevitabile.
Interessante anche il ricordo legato all’immagine pubblica. Cabrini ammette con naturalezza di essere stato tra i primi calciatori a diventare uomo-brand, aprendo una strada poi seguita da tanti. Nonostante la bellezza e l’enorme attenzione delle fan, racconta quel periodo con distacco e sobrietà, come qualcosa che appartiene al passato. È il ritratto di un campione che non rinnega nulla, ma che oggi vive con serenità un mondo del calcio che sente sempre meno suo.
















